sabato 26 dicembre 2009

Io so chi ha ucciso il commissario Luigi Calabresi



È perché ancora il sangue torna a scorrerci più veloce nelle vene, furioso, ogni volta che la repressione colpisce, violenta, è perché nel nostro cuore serbiamo un’idea alta di giustizia, è perché ci ripugnano i calcoli politici, i rimestamenti, gli opportunismi variamente mascherati di chi confida nella memoria corta e nella vaghezza fumosa dei concetti a rendere tutti i gatti grigi, è per tutto questo che ci permettiamo di riproporre questo testo di Alfredo Bonanno. A proposito di un compagno ucciso, a proposito di memoria, a proposito di anarchia.

Per noi, non tutti i gatti sono grigi.

Edizioni Anarchismo

www.edizionianarchismo.net

Io so chi ha ucciso il commissario Luigi Calabresi, il 17 maggio 1972, sotto casa sua, in via Cherubini 6, a Milano, alle nove e un quarto del mattino.

L’affermazione è grave, non per le implicazioni giudiziarie, per carità, delle quali non mi curo minimamente, ma per ben altri motivi, ed è di questi motivi che voglio mettere a parte i miei attenti lettori.

In fondo, se riflettiamo un poco, di che cosa possiamo essere sicuri? La mattina ci svegliamo, mettiamo i piedi fuori dal letto, facciamo colazione in fretta, voliamo verso la scuola, il lavoro, i più vicini giardinetti per trovare gli amici, insomma, ognuno verso le proprie faccende quotidiane. La sera, ritornando a porre le spalle sul lenzuolo, quasi sempre lo stesso della sera prima, di che possiamo dirci certi dell’insieme di fatti che abbiamo visto scorrere sotto i nostri occhi durante l’intera giornata? Non appena puntualizziamo un avvenimento, per quanto semplice, il caffè che abbiamo preso la mattina al bar, ecco che tutto il contorno si fa confuso, tende a sfocare nei suoi dettagli, e ogni aspetto scompare in un desiderio inappagato di precisione.

In definitiva, abbiamo una memoria di quello che ci è accaduto, di quello che abbiamo fatto, ma le nostre affermazioni, riguardo i singoli avvenimenti, sono tanto inadeguate da farci concludere che non possiamo dirci certi di niente.

Ma com’è possibile, direbbe qualcuno?

La risposta è semplice. Noi siamo certi, e sempre dentro limiti a volte consistenti e gravissimi, solo di quello che veramente ci interessa, di quello che si è talmente avvicinato ai nostri personali sentimenti, bisogni, desideri, sogni, progetti, da costituire pugno nello stomaco. Ricordiamo solo i pugni nello stomaco.

Di per sé, la vita non ci riserva molti pugni nello stomaco, e forse è meglio così.

Pensate cosa sarebbe una vita continuamente vissuta al limite della tensione emotiva, fin quasi a scoppiare sopraffatti dall’adrenalina. Un poco di calma, per carità.

Ma, poiché non siamo bestie da soma, ma uomini e donne ansiosi di viverla questa vita, ecco che la guardiamo in maniera selettiva. Filtriamo i fatti che ci accadono attorno, non solo quelli che vediamo direttamente con i nostri occhi, ma anche quelli che le grandi protesi moderne dei giornali e della televisione ci consentono di cogliere, fatti distanti migliaia di miglia, lontani nello spazio eppure così vicini come se accadessero nel cortile di casa nostra.

Abbiamo fatto l’abitudine a questi fatti, ma ce ne sono alcuni che si presentano in modo tale da colpirci profondamente.

Che vuol dire questo essere colpiti, per giunta in profondità? Vuol dire che restiamo a bocca aperta, mentre una sensazione di dolore, di ansia, di indignazione, di disgusto, oppure, il che fa lo stesso dal punto di vista dei meccanismi biologici che si scatenano nel nostro corpo, di gioia, di entusiasmo, di ebbrezza, ecc.

Questi accadimenti entrano in noi e vi si suggellano nella nostra certezza.

So bene che non c’è certezza alcuna, se la si considera in termini di oggettiva certezza valida per tutti, se la si pretende verificare con il bilancino del farmacista, ma quando il sangue ribolle nelle nostre vene per i quindici morti straziati dentro la sala centrale della Banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana a Milano, passassero cent’anni, ci sentiremmo lo stesso certi di un fatto indegno, che solo miserabili servitori dello Stato potevano compiere.

Ecco il genere di certezza di cui voglio parlare.

Tutte le volte che penso a Pinelli gettato dalla finestra della stanza del commissario Calabresi nel cortile interno della questura di via Fatebenefratelli a Milano, il sangue mi ribolle nelle vene.

Quindi anche di questo sono certo. Mille legulei organizzati insieme per spiegarmi le ragioni del povero commissario sbalordito dal poderoso colpo di reni di Pinelli per andare a volteggiare nell’aria notturna di Milano, non possono convincermi. Non ho nemmeno bisogno di leggere le testimonianze dei compagni presenti nelle altre stanze che udirono l’accalorarsi dell’interrogatorio, e le imprecazioni che precedettero e seguirono l’uccisione di Pinelli. Non aggiungono nulla alla mia certezza, queste testimonianze.

Allo stesso modo non tolgono nulla gli scagiona­menti di tribunali, o le dichiarazioni filiali di giovani uomini cresciuti all’ombra della colpa paterna, o i ricordi sudaticci di una vedova per la quale non ho mai provato compassione.


Un uomo deciso, sicuro di sé, messo in caricatura perfino in un film, ma padrone della situazione. Era lui la punta di diamante della questura di Milano nel momento in cui scoppiano le bombe, era lui a darsi da fare sulla spinta degli avvenimenti, forse più grandi di lui, ma non di certo capaci di stornargli il cuore verso un moto di correttezza, prima di tutto verso se stesso. Ma di che correttezza può essere capace uno sbirro, e per giunta uno sbirro che vuole fare carriera a qualsiasi costo?

Nessuno parla più di questa persona in modo concreto, non potendo sembrare un mito, sembra almeno un fantasma. Gli anni passati hanno annacquato il personaggio, la morte sembra avere appiattito le caratteristiche in una iconografia da martire statale.

Il povero Calabresi, trentaquattro anni, un fiore di gentiluomo, con moglie incinta e due figlioletti. Un appartamentino al terzo piano del n. 6 di via Cherubini, una casa modesta. Dopo la morte, la moglie dovette attendere quasi un anno per avere 156.000 lire al mese di pensione. Che tristezza.

Ma il povero Calabresi vedeva la vita sotto un’altra prospettiva. Voleva essere un vincente, giocava sporco, ed era riuscito a costruire attorno a sé la fama di duro, di imbattibile. Dappertutto arrivava per primo, schiacciava tutta la concorrenza, i suoi collaboratori lo odiavano, i suoi superiori lo temevano. Uomo da karatè e da culto della forza, era talmente ipocrita con tutti da farsi passare per un sentimentale, per un cattolico praticante, per un timorato di Dio. In fondo, quest’insegnamento l’aveva appreso in America, dove era stato a lavorare con la Cia. Un’esperienza, all’epoca, fatta da pochi super poliziotti italiani.


In quei febbrili giorni del dopo strage a Milano tutti avevano paura di tutti. Il segno del terrore cominciava per la prima volta, seriamente, a penetrare l’aria provinciale e sempliciotta del nostro paese. Anche la città industriale per eccellenza, in fondo, non aveva mai vissuto un’epoca come quella che si accingeva a vivere. E la gente quasi lo sentiva nella pelle questo tragico discorso nuovo che stava per aprirsi.

Perché Pinelli? Perché non lo sappiamo, non lo sapremo mai. Poteva toccare a un altro compagno. La prova di buttare giù qualcuno dalla medesima finestra dello studio di Calabresi era stata fatta mesi prima con Braschi, poteva essere lui a cadere rimbalzando sui cornicioni. Gli è andata bene. Il contesto degli attentati alla Fiera campionaria non era all’altezza di quello di Piazza Fontana.

Raffazzonare al meglio la tesi della pista anarchica era compito suo, era lui lo specialista degli anarchici milanesi, e degli altri che avevano rapporti con i compagni di Milano. Chi meglio di lui poteva raccogliere le fila del discorso di già iniziato da Ventura, con la pubblicazione dei testi anarchici fatta da una casa editrice dichiaratamente fascista e finanziata dal Ministero?

In fondo, la scelta degli anarchici era di già in corso da mesi, la prova generale era stata fatta con le bombe della Fiera campionaria. Molti i compagni in galera proprio in quel momento. E lì attorno, a girare ben bene le cose, il povero Calabresi, con il suo vestito stirato di fresco, il suo atteggiamento educato e duro, la sua cultura (si fa per dire, ma sempre qualcosa in prestito riusciva a prenderlo qua e là), la sua velocità nel prendere decisioni.


La velocità nelle decisioni. Un uomo che aveva lavorato per la Cia non poteva avere che la velocità degli uomini della Cia, spietati e freddi nell’esecuzione del loro lavoro. Solo tempi molto più vicini a noi hanno smontato questi luoghi comuni, facendo vedere come i Servizi Segreti, dalla Cia al MI5, al famigerato Mossad, altro non sono che bande di assassini prezzolati e garantiti dell’immunità statale, spesso anche un branco di incapaci e di sprovveduti, dotati di mezzi che a un certo punto li fanno più grandi e più forti di quello che veramente sono.

Ecco, il commissario Luigi Calabresi era uno di questi assassini prezzolati e garantiti. Attorno a lui si era creato il mito dell’imbattibilità, della forza deci­sionista che abbatte tutti gli ostacoli di fronte a sé.

Una prima incrinatura questo mito l’aveva avuto al processo contro “Lotta Continua”, dove Calabresi era apparso in difficoltà. Lo si accusava esattamente di quello che stiamo dicendo qui, di avere ucciso, o almeno partecipato all’uccisione di Pinelli. I balbettii di risposta sono ancora nel ricordo di tanti compagni.


Il 17 di maggio fu un giorno infausto per il grande commissario. Tutto sembrava dovesse andare come sempre, la solita routine della mattina: la colazione, il saluto alla moglie incinta, i due figlioletti, uno di due anni e uno di undici mesi, che scenetta familiare.

Anche il boia ha una famiglia. Non sembra possibile, ma è così. E la famiglia del boia vede il lavoro del boia come quello di un qualsiasi funzionario dello Stato, per giunta di un certo livello, richiedendo il lavoro di boia specializzazioni che non tutti possono assolvere. Dietro la maschera che nasconde il boia c’è posto anche per la prolifica moglie e la numerosa figliolanza.

Quell’infausto giorno, più o meno alle nove di mat­tina, il commissario Luigi Calabresi scende in strada. Lì lo aspetta il suo destino, esattamente alle nove e quindici minuti, sotto forma di due pallottole, una prima e una dopo.

Referto: discontinuazioni craniche, meningo-cerebrali, da proiettile da arma da fuoco (regione occipitale destra).

L’autoambulanza della Crocebianca di Vialba urla la sua urgenza per le strade della metropoli. Alle nove e trentasette minuti il commissario Luigi Calabresi muore all’ospedale S. Carlo.


L’autopsia sul cadavere di Pinelli fu eseguita dai professori Ludovi, Mangigli e Falzi. Chi sono costoro? Non lo so. Dei tagliaossa qualsiasi? Non credo, almeno uno di loro era un uomo dei Servizi, come è apparso in una nota marginale pubblicata dai giornali anni dopo.

Perché questa presenza? Perché, ancora una volta non si sentivano sicuri che tutto fosse stato fatto a dovere (troppa gente nella stanza di Calabresi?), e volevano chiudere al più presto, massacrando in fretta e furia quel che restava del nostro compagno.

Una cosa è certa, che se il lavoro di Calabresi fu un macabro pasticcio (all’improvviso risultò che Pinelli portava ai piedi tre scarpe), quello dei notomizzatori fu fatto alla perfezione. Dopo, nessuna controperizia fu possibile.


Calabresi, dopo essere uscito dal portone di casa, va verso il salvagente nel centro della via dove era parcheggiata la Cinquecento della moglie. Ai due lati una Primula e una Opel. Il primo colpo lo coglie alla spalla destra, cade, il secondo gli fa saltare parte del cranio. Lo spazio tra la Cinquecento e l’Opel si riempie a poco a poco di sangue.

La gente presente non accorre subito, quasi non si è accorta dei colpi d’arma da fuoco. Nell’aria primaverile sembravano scoppiettii d’una vecchia auto. Poi qualcuno scorge il corpo bocconi, il sangue che continua ad allargare la sua chiazza purpurea. Si chiama la polizia, i carabinieri, l’autoambulanza, insomma tutto quello che accade di solito in questi casi, accade, come in un vecchio copione abusato. Solo che stavolta accorrono anche gli alti vertici della polizia milanese. Guida ha gli occhi pieni di lacrime. Il vecchio custode dei penitenziari fascisti, sperimentato a tanti misfatti e a tante torture, si commuove nel vedere il corpo del fido collaboratore a terra, riverso nel proprio sangue.



Il funerale del commissario finestra è fastoso, moltissime corone di fiori. Il cadavere viene portato in chiesa. Il vescovo ausiliare di Milano celebra il rito funebre: “Fulgido esempio di dedizione al dovere”. È incredibile come questa gente non abbia il minimo senso di pudore.

Il cardinale Colombo, riferendosi ad una dichiarazione della signora Gemma Calabresi, afferma: “Il fiore più bello sbocciato sul sangue del commissario ucciso è il perdono della vedova”. Roba da non crederci.

Perdono. Che parola magica. Bisognerà aspettare degli anni per sentirla ripetere di nuovo, da altra gente, in altri contesti, ma sempre riguardo la morte di Calabresi.

Ma, andiamo con ordine.


Di quella mattinata di maggio qualcuno, dopo tanti anni, sembra ricordare qualcosa. Che splendido e meraviglioso meccanismo è la memoria. La memoria dei pentiti, poi, meriterebbe uno studio a parte. In quel di Massa c’è un tizio che vende crêpe, che ha un chiosco di crêpe, forse venderà anche cocacola e aranciate, non lo so, comunque ha tutta l’aria di un onesto bottegaio che tira a campare. E invece sotto il suo sguardo bonaccione si nasconde un pericoloso criminale.

In più, questo criminale pericoloso parla, racconta delle storie, narra di quello che fece la mattina di quel 17 maggio 1972 in via Cherubini, quando a bordo di una macchina aspettava, aspettava, aspettava.

Ma chi aspettava?

Il nostro amico fa un nome, poi ne fa altri due, indicando in questi ultimi i mandanti dell’uccisione di Calabresi.

Lui era solo l’assistente, l’autista dell’autore materiale del fatto.

Ma andiamo, mio caro amico pentito, possibile che i carabinieri abbiano soltanto un disco e che a tutti coloro che accettano per quattro soldi di indossare la casacca dell’infame facciano recitare sempre la solita storia?

Ecco, c’è un fatto che i magistrati non sanno, che lo stesso pentito non sa, che nessuno sa, ed è il fatto che io so chi ha ucciso il commissario Luigi Calabresi, il 17 maggio 1972, sotto casa sua, in via Cherubini 6, a Milano, alle nove e un quarto del mattino. E questo taglia la testa al toro, definitivamente. Il faccione del pentito sta solo recitando un pessimo copione.

Ma, non anticipiamo i tempi.


Ad aspettare il commissario in via Cherubini, c’era la vendetta.

Un assoluto silenzio accolse il 20 dicembre del 1969 all’uscita dell’obitorio la salma di Pinelli. Erano le 15 e un quarto. Cominciava a piovere.

Ci indirizzammo verso via Preneste.

La moglie Licia aveva rilasciato un comunicato: “Desidero vivamente che i funerali di Pino Pinelli, pur aperti a tutti gli amici che vorranno prendervi parte, avvengano in forma dichiaratamente privata, senza la partecipazione di gruppi organizzati, di delegazioni o simboli”.

Non so perché lei ebbe a fare questa dichiarazione, non certo per i motivi per cui da solo, nel mio cuore, anch’io ero arrivato alle stesse conclusioni: simboli, striscioni dei gruppi, forse le stesse bandiere al vento, sarebbero stati fuori posto.

Una sola bandiera nera avrebbe dovuto essere presente, alla fine risultò che di bandiere ce n’erano più del necessario.

Una corona di fiori portava una piccola scritta: “Gli anarchici tutti non ti dimenticheranno”.

Mi chiesi se non avremmo dimenticato Pinelli, oppure quello che gli era stato fatto. Il dubbio rimase fino al Cimitero Maggiore.

Fossa 434, campo 76.

Qui non ebbi più dubbi. E, insieme a me, i mille compagni presenti non ebbero più dubbi.

Calabresi doveva essere ucciso.

Addio Lugano bella.


La vendetta è una questione di dignità. L’enormità del fatto non deve essere commisurata soltanto alla morte di Pinelli, e forse nemmeno alla stessa strage dei quindici morti e dei novanta feriti. Ciò costituirebbe una mera algebra giuridica, forse appena appena più corretta di quella che prevedono i codici. E, in questo senso, non mi interesserebbe.

La vendetta è un eccesso, di per sé, non nell’attacco che realizza. Quindi, vedendo il rapporto nel senso contrario, l’uccisione di Calabresi, questa non è stata una vendetta commisurata, commisurata ai morti di Piazza Fontana o alla morte di Pinelli. Anche vedendo le cose in questo modo si ricade nell’algebra giuridica di prima.

La vendetta è quindi un eccesso.

Non occhio per occhio, dente per dente, che di già nella formulazione biblica costituiva una razionaliz­zazione di precedenti comportamenti vendicativi imprevedibili, quindi un codice vero e proprio, mentre è parso ai più, erroneamente, una vendetta e basta.

L’eccesso che si racchiude nella vendetta spazza il campo di qualsiasi rapporto di equivalenza, di qualsiasi commisurazione. Non è vendetta se non si trabocca nell’immane, nella cancellazione barbara del nemico, nella sua eliminazione o, almeno, in un arrecargli un danno di tale portata da rendergli impossibile l’oblio.

Se la vendetta fosse commisurata, sarebbe il sistema sociale nel suo insieme ad impormela, ed eccomi quindi racchiuso in un codice, sia pure non scritto, ma sempre in un codice. L’ambiente mi obbligherebbe a vendicarmi, seguendo delle regole, in quanto in caso contrario sarei guardato male e male considerato se non mi vendicassi o se mi vendicassi in eccesso, dando origine a ripercussioni dannose per l’ambiente stesso.

Invece, se a sollecitarmi alla vendetta è la mia dignità offesa, è solo verso di essa che io sono responsabile, ed è con essa, quindi con la parte offesa di me stesso, con la mia coscienza, che devo fare i conti. E con me stesso non ci sono mezze misure, io costituisco con me stesso una totalità indissolubile, io sono il mondo, la totalità del mondo, e chi arreca offesa alla mia dignità cancella il mondo, mi distrugge come coscienza del mondo attraverso me stesso, e merita di essere tolto dal mondo.

Certo, sono pochi a cogliere il senso profondo della propria dignità. È questo il mistero di certi comportamenti che ci sembrano inspiegabili. Nietzsche si sente offeso nella propria dignità di uomo di fronte allo spettacolo di un vetturino che frusta il proprio cavallo e non potendo resistere davanti al proprio mondo ucciso da quel bruto insensibile, decide di cancellarlo quel mondo, di cancellare il proprio mondo, di cancellarsi nella pazzia. Per lo stesso motivo, altri compagni, di fronte alla propria dignità offesa cancellano il mondo in altro modo, si cancellano nel suicidio.

Questo modo di vedere la vita si sviluppa e finisce per diventare essenziale, man mano che ci si rende conto dell’assurdità delle regole formali che sanciscono la cosiddetta società, per non parlare delle leggi che fissano le condizioni di esistenza dello Stato. Leggi e comportamenti che a lungo andare appaiono non solo strumenti del nemico per asfissiare e rendere impossibile quel poco di libertà che anche in una società amministrata e controllata è possibile strappare, ma in se stessi, come vere storture, comportamenti aberranti anche quando appaiono intenzionati dalla migliore buona volontà.

La critica della vita quotidiana produce una coscienza che nel tempo si fa sempre più acuta e sensibile, sempre più alacre nello scoprire ulteriori terreni di desolazione e di isolamento. Tutto intorno cadono così i luoghi comuni del possibilismo democratico, le illusioni della politica, le positività del movimento storico, le concessioni istituzionali, l’asetticità di certi riconoscimenti. Si fa terreno bruciato, ed allora occorre decidersi. Se la propria coscienza è capace di penetrare dentro la realtà, se scopre la trama che costituisce il tessuto dei rapporti sociali, quella trama fine e quasi impalpabile che spesso è coperta dai colori appetitosi dell’offerta con cui si veste la miseria del dominio, se arriva a fare chiara questa notte senza tempo, allora si sente offesa, profondamente offesa.

È l’offesa dei millenni della schiavitù e dell’incarce­razione, dei millenni di sofferenze e genocidi, dei millenni di sottomissione a pochi gruppi dominatori. Nulla di quello che è stato il nostro passato merita di essere salvato, nulla mi è stato dato, e nulla sono riuscito a strappare al nemico, se non nell’ottica di una sua concorrenziale concessione diretta a farmi accedere al banchetto, sia pure per qualche briciola, per qualche riconoscimento di status del tutto marginale, per qualche striscia sul berretto, per qualche inchino da parte di imbecilli sornioni che si credono furbi.

E puoi anche riflettere per anni e anni su questi problemi, leggere e riflettere, fin quando ti senti stanco e triste, e non c’è nessuna pagina, nessuna parola, nessun gesto di uomo o di donna a te vicini che ti dica qualcosa di chiaro, definitivamente chiaro. Puoi remare nell’oscurità per anni, come i galeotti di un tempo, fino allo stremo, fino a quando cadi morto sul remo senza che gli altri se ne accorgano.

Invece, può accadere che un fatto ti illumini per un attimo il fondo della strada, che un fatto atroce ti faccia vedere in filigrana com’è veramente il nemico, di che pasta lo hanno messo al forno, da quale crogiolo infernale è uscita la sua anima. Se un tale avvenimento accade, se sei là anche tu, insieme a tanti altri come te, che sai che stanno vivendo la medesima esperienza traumatica, e li vedi, omoni grossi con le mani callose, ragazzini che cercano di darsi un atteggiamento, donne mature che corrono col pensiero agli anni della guerra, ai figli trucidati, fanciulle che vedono il loro amore, che avvertono come un segno di purezza del mondo, quasi sporcato da tanta protervia, e li vedi, tutti con le lacrime agli occhi, impotenti ma con i muscoli tesi, se un tale avvenimento accade con te dentro, non è più un qualsiasi accadi­mento, un fatto come gli altri (milioni di persone muoiono uccise barbaramente e vengono condotte al cimitero più o meno in fretta), ma quel fatto ha una carica diversa, porta con sé una tensione che non ti permette di avere tregua, ti svegli la notte sudato e, seduto sul letto, ti chiedi che stai facendo nel tuo letto, e se per caso non sei tu il morto che si gira nella tomba, mentre ad essere vivo, ben vivo, è proprio Pinelli, con la sua ingenua barba da operaio delle ferrovie.

Mi rendo conto che tutto questo potrà sembrare un elenco di sensazioni avvertite da un cervello esaltato, da me che, lo devo confessare, quella sera al Cimitero Maggiore, fossa 434, campo 76, mi sono messo a piangere senza ritegno. E sia, mettiamola così, si tratta di ricordi che risentono dello stato emotivo del momento, e spesso questi stati emotivi esaltati, non potendosi esprimere sull’istante in qualche cosa di fattivo (prendere a pugni un poliziotto, ad esempio), si traducono in una frustrazione che fa scoppiare in lacrime. E sia, sono d’accordo.

Ma così ragionando si perde qualcosa d’importante, riducendo tutto ad una somma di singole persone che vivono singoli stati d’animo, si mette da parte la cosa essenziale, quella forza eccezionalmente importante che viene fuori da molte persone che avvertendo le medesime sensazioni emotive, sollecitate da sentimenti molto simili (nessuno identico, per carità, lo so bene), si sentono attratti uno con l’altro a costituire un insieme omogeneo che non ha bisogno di patti o contratti scritti o detti per costituirsi. Improvvisamente, questa forza collettiva emerge ed è là, tangibile, posso toccarla, posso sentire la sua voce, posso lasciarmi prendere dalle sue suggestioni, indirizzare lo sguardo dove lei mi dice di guardare, vedere con i suoi occhi fatti di mille pupille quello che i miei poveri occhi miopi non vedono, ricordare ciò che la mia povera mente da sola non può ricordare.

Improvvisamente, come dalla testa di Zeus, di tutto punto armata, esce l’idea di giustizia. Ma è una ben strana idea, perché non si appoggia a nessun patto, a nessun ordinamento preferenziale. Non è un’idea che vuole rimettere le cose al loro posto, scambiare il cadavere di Pinelli con quello di Calabresi, non sono prodotti fungibili. Non è un’idea che vuole garantire all’azione rivoluzionaria, genericamente considerata, una legittimità di continuazione: che fiducia possono avere gli sfruttati in rivoluzionari che senza reagire si fanno gettare dalla finestra come una scatola di roba vecchia. No, nemmeno questo. Non è un’idea che vuole essere conosciuta, fatta propria dalla gente, tanto è vero che non ci saranno rivendicazioni o chiacchiere politiche da parte di organizzazioni specifiche di nessun genere, e dire che in quel torno di tempo strutture nascenti ce n’erano diverse. Non è un’idea che si alza più alta delle altre per richiamare all’ordine turbato dal comportamento fuori delle regole, dai misfatti compiuti da un certo commissario Calabresi, dopo tutto non è certo normale che un fermato in questura, durante un interrogatorio, venga buttato fuori dalla finestra.

Se questo mondo si basa sulla giustizia commisu­rata, sui calcoli numerici di un dare e un avere, di un punire per il torto fatto e di fare un torto per la pena subita, si tratta di un mondo che non ha niente a che fare con quell’idea di giustizia venuta fuori collettivamente in quel momento, quella sera, nel Cimitero Maggiore di Milano. Ecco quindi che quella sera, senza che nessuno lo volesse o lo sapesse, è venuta fuori un’idea di giustizia che prima non c’era, un’idea che travalica e rende risibile il singolo desiderio, la singola fantasia di sparare in bocca al buon commissario Cala­bresi, desiderio e fantasia coltivati senz’altro dalla quasi totalità dei presenti, ma come tutti i desideri e tutte le fantasie, poco dopo, col ritorno alla vita quotidiana, svaniti nel nulla.

Invece quest’idea di giustizia (che si potrebbe de­finire “proletaria” se, come giustamente è stato fatto notare, su questo termine non fosse piovuta la polvere dei millenni a renderlo inutilizzabile), che non sapendo come chiamare continueremo a chiamare così, semplicemente, giustizia, quest’idea di giustizia ha continuato il suo cammino in tutti noi, ci ha mantenuti tutti insieme uniti, compagni che non mi sono mai stati vicini, che erano presenti quella sera lì, che poi ho rivisto poche volte altrove, in tutt’altre faccende affaccendati, loro ed io, compagni per i quali, diciamolo chiaramente, nutro pochissima stima, se non proprio avversione e disprezzo, ebbene per il semplice fatto che anche loro fossero lì quella sera, tutte le volte che la voce lontana ma vivissima della giustizia mi chiama, mettendomi in subbuglio il cuore, anche quei compagni torno a sentirli vicini.


Ecco perché io so chi ha ucciso il commissario Luigi Calabresi, il 17 maggio 1972, sotto casa sua, in via Cherubini 6, a Milano, alle nove e un quarto del mattino.

Quei mille, e più, compagni presenti alla fossa 434, campo 76, del Cimitero Maggiore di Milano, abbiamo tutti premuto il grilletto.

Nessun perdono. Nessuna pietà.

Addio Lugano bella.

Catania, 12 luglio 1998

Alfredo M. Bonanno

[Da Io so chi ha ucciso il commissario Luigi Calabresi, Anarchismo, Trieste 2007]

domenica 20 dicembre 2009

Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me

credo che l'uomo sia scisso in due parti sostanziali: da una parte, il desiderio di andare oltre, al dì là della staccionata, il volere scrutare l'ignoto... questo è un desiderio mosso, appunto, da l'ignoranza verso le cose della vita, verso lo sconosciuto vivere. L'altro atteggiamento non è molto diverso dal primo, se non per il fatto che preclude lo slancio nel vuoto, evita di provare a desiderare l'oltre, preferendo accontentarsi del qui, dell'adesso e del pensabile vicino.
L'individuo ripercorre le strade della sua esistenza, un pò qui e un pò là, un pò altre.. cerca di definirsi come uomo ma si riscopre solo un elemento come tanti.
Appena nati siamo immuni alla vita, il nostro corpo non ha ancora sviluppato le capacità cognitive, razionali e morali.. e come potrebbe...
siamo i balia del tempo, siamo fragili, senza identità.
Con lo sviluppo fisico, vengono potenziate le nostre doti. Il cervello si ingrandisce e ci permette ragionamenti complessi.. a loro volta questi, ci permetrtono di dare un senso ai "sensi".
Impariamo a chiamare sasso, quel grumo duro e inscalfibile, impariamoi a chiamare mamma, quel essere che ci mette al mondo e che ci accompagna durante tutta la crescita, impariamo a chiamare cibo, gli alimenti che ci sostengono.. e così via... questa è l'evoluzione umana.
Ma ci sono quesiti che l'intelletto e la ragione non possono risolvere. Ed ecco che allora ci affidiamo all'ignoto e da questo inventiamo un modo che sia altro rispetto al noi, al razionale che ci distingue.
Inventiamo ilo cielo, inventiamo la terra, il fuoco, l'anima, gli angeli, la morte, il timore, l'obbidienza, efficacia.. e cosa più sgradevole di tutte.. inventiamo il servilismo come atteggiamento.

martedì 8 dicembre 2009

Dove vive mia nonna


Ho dei felici ricordi legati a questo territorio; penso all'odore del mare che arriva da Fontane Bianche, portato da un caldo Scirocco, alla forma delle case, basse, piccole, ammucchiate le une sulle altre, al colore della terra, rossa, marrone, a volte bianca, ma sempre arrida e secca.
Sono ricordi legate per lo più all'estate, quando la famiglia Ambrogio ripercorreva l'Italia al contrario, e dalla fredda Valle d'Aosta riscendeva alla calda Sicilia.
Ho sempre visto Cassibile come una terra particolare, sicuramente speciale, dove non esistono cittadini cassibilesi ma amici, parente, conoscenti, compari, vicini, colleghi e compagni.
Il paese non è per nulla grande, sfiora i seimila abitanti, molti dei quali lavorano nei campi agricoli che circondano l'abitato urbano. La terra è povera ma adatta alla coltivazione di patate, agrumi, pomodori e ortaggi.
Nei miei ricordi di bambino Cassibile è abitata da gente simpatica, cordiale, dai modi sicuramente contadini ma mai volgari.
La vita è sempre trascorsa lenta a Cassibile. La strada principale, che attraversa il paese tagliandolo in due, segna il tempo della giornata. Al mattino il traffico è assordante, c'è chi ritorna da Siracusa, c'è chi invece è diretto in città; ci sono i camion, carichi di patate, ci sono i tir, che passano per Cassibile, devono imboccare l'autostrada, o per lo meno, quella che tra un po' diventerà l'autostrada Siracusa-Gela.
Di pomeriggio, soprattutto in estate, la strada è deserta. Pochissime macchine sfidano la calura pomeridiana, e poi, è difficile rinunciare alla siesta, già misembra di vedere un intero paese sbraiato al fresco, magari in camera da letto o in cucina, sul divano, con un Pinguino Delonghi sparato in faccia.
La strada ritorna trafficata solo verso le sedici. Ancora camion, ancora macchine, ancora motorini.
In tutta questa prosa quotidiana, monocromatica e monotona, non mancano mai gli stranieri, sicuramente non mancano mai nei miei ricordi. Arrivando dalla strada di Avola è difficile non notarli. Li vedi curvi nei campi, a volte li vedi camminare in fila indiana lungo la strada, a volte li vedi sdraiati in qualche panchina, a volte stanno parlando tra di loro negli angoli di strada.
L'immigrazione non ha mai lasciato queste terre. Prima erano i siciliani a partire, ad imbarcarsi verso nuovi luoghi immaginati, esotici, sconosciuti.
Nei primi del novecento, molti cassibilesi scelsero la via delle Americhe, decisero di imbarcarsi in enormi e paurosi transatlantici. Poche certezze e grandi speranze. Questo era il bagaglio, questo era quello che serviva, e nulla più. Qualcuno di loro è tornato dalle loro famiglie o parenti, molti altri no; hanno preferito rifarsi una vita da un'altra parte, hanno preferito un'altra realtà, hanno scelto altre occasioni1.
Poi è successo che i cassibilesi hanno smesso di emigrare, hanno scelto di rimanere, sicuramente partire non era più conveniente. Il lavoro c'era, il livello della vita era alto, o per lo meno, lo sarebbe diventato, c'erano nuove opportunità. E allora si è deciso di rimanere e di costruire. Costruire case, sempre di più. Fino a quando non si è creato un'altra Cassibile, una Cassibile moderna, o per lo meno, come poteva esserlo negli anni del boom economico ed edilizio. Così molti cassibilesi si spostarono nel nuovo paese, che sorgeva a soli pochi metri dal vecchio borgo. Nello stesso periodo arrivano altri immigrati. Arrivano dei marocchini. Prima alcune famiglie che si insediano nelle, oramai, abbandonate e decadenti case del borgo. Ne arrivano sempre di più. Vengono per lavorare la terra, per guadagnare, sopratutto. Il vecchio Mustafà ha passato metà della sua vita a lavorare per mantenere la sua famiglia lasciata in Marocco.
È anche questa la Cassibile dei miei ricordi. È anche la Cassibile dei marocchini al bar o nelle piazze, degli etiopi nei campi di patate, dei senegalesi che vendono le collanine sulla spiaggia. Non riesco ad immaginare una Cassibile senza immigrati, esistono da quando ne ho memoria. Esistono nella realtà così come esistono nell'immaginario comune di tutti noi italiani.
L'immigrato ci viene proposto come “un altro” rispetto al “noi”, un diverso senza dubbio, un “lontano” e sopratutto uno sconosciuto, e forse è questo quello che ci fa più paura.

sabato 14 febbraio 2009

Riflessioni sconsiderate (la vera natura dell'uomo)

L’evoluzione non passa dalla storia
La storia non è la realtà
Ricordare il futuro
Ipotizzare il presente
Il circolo vizioso ci incatena
Gli uni agli altri
Me stesso a me stesso
Libera il piacere
Sfoga l’intelletto
Abbandona l’intelligenza
Balla sulle note dell’intuizione
E calpesta la morale
Ripudiala come questa ripudia te
Dispregiala ed umiliala
Odiala più di quanto possa fare lei
L’uomo è illusione permanente
L’evoluzione nega se stessa
Ed io non vedo più il mio vicino

venerdì 30 gennaio 2009

Pasquinate... libere, graffianti, illuminate, anonime e politicamente scorrette

Appello a li cinesi

A cinè...lassate perde i tibetani, date retta
e trattate er Dalai Lama co' rispetto:
perchè 'n venite a Roma in tutta fretta
e ce cacciate via papa Benedetto?

(aprile 2008)


E guere sante

In nome della religgione
so’ state fatte un mucchio de boiate:
se so’ ammazzate un botto de persone
inzin dai tempi de quanno, alle crociate,
in tera santa agnedero i cristiani,
che dall’Europa se spinsero laggiù,
pe ripija er seporcro ai musurmani,
ner santo nome der papa e de Gesù.
Ora le parti se so’ rovesciate:
mò so’ l’islamici a dichiaracce guera,
e in nome de Maometto, er gran profeta
se vònno conquistà tutta la tera.
Che ce vòi fa, cosi và er monno…
Quello che fài , poi, te vie' rifatto.
Ma te lo vojo dì, a tutto tonno,
quanto me rode er culo pè sto fatto!

(febbraio 2006)



L’ auto blu


Un’auto blu co ‘n pezzo grosso dentro
sfreccia per le vie de Roma mia:
passa pe’ li Fori, se dirige ar centro
co’ davanti la scorta che je libbera la via.
E’ naturale, l’onorevole c’ha bisogno der codazzo
hai visto mai che se dovesse da fermà
Ahò, quello è mica “sor Fraccazzo"
tutti l’altri s’hanno da bloccà.
E magara nun sta manco distante
dieci minuti appena de cammino…
ma mica po’ annà a piedi, lui è importante,
che je frega si abbita vicino…
La scorta costa? E mica a paga lui,
sinnò le tasse che ce stanno a fa?
So cazzi nostra, nun so’ mica li sui,
noi aamo solo da abbozzà!
(dicembre 2005)

L’oro de Roma

La Città Eterna vive tempi oscuri,
li monumenti stanno pe’ crollà:
s’oprono le crepe su li muri
er Colosseo rischia de cascà.
La Roma antica è pericolante,
chiude la Domus, trema er Palatino…
Er maltempo è stato devastante,
servono li sòrdi pe’ aggiustà er casino.
Ma li fondi pe’ Roma nun ce stanno,
servono pe’ cose più impellenti:
la notte bianca, la festa a capodanno…
troppo importanti so’ tutti st’eventi
Povera Roma, in mano de chi stai!
De te nun frega gnente più a nessuno:
li secoli de storia che tu c’hai
stanno a morì pe' fa' divertì quarcuno.
(dicembre 2005)


Li giornali e la televisione

Li giornali nun s'hanno più da legge
pieni come so' de un mare de stronzate.
ce fanno diventà pecore der gregge
a forza de riempicce 'a testa de cazzate.
Pe' facce scordà la situazione der Paese
hanno fatto un titolone: "Totti c'ha un pupetto!"
Ma pe' er farmaco sparito da oltre un mese
c'è stato a mala pena un trafiletto!
E de 'a televisione ne parlamo?
ce fosse un programma intelligente....
Fra isole, fratelli e Celentano
ormai nun se pò guardà più gnente.
Annamo avanti co' le prof e i commissari,
co' li forum e co' quer cazzo de Processo...
Io c'ho le palle piene, amici cari:
stasera butto tutto drento ar cesso!
(novembre 2005)


Vietato fumare (2)

Si m'accenno er Toscano su balcone
nun me scassà le palle, fà er favore!
Chissene frega si senti puzza nel salone:
fa male er fumo, pe' la legge, mica l'odore!
(settembre 2005)

Er funerale der Papa

Dice la saggezza popolare:
"Morto un papa, un antro se ne fà".
E questo è vero, gnente da obbiettare,
senza pontefice la chiesa nun ce stà.
Ma vajelo un pò a dì, a tutti i pellegrini
ammassati dalle parti de San Pietro:
mijoni de persone, mica bruscolini...
uno davanti e più de centomila dietro.
Chilomentri de fila, avanti piano piano,
ore d'attesa pe vedè 'na bara:
gente che prega e che se pija pe' mano,
tutti in silenzio, senza fa' caciara.
E' morto un grande papa, uno de còre,
questo lo dice puro chi nun crede:
a uno così je s'ha da renne onore,
indipendentemente dalla fede.
E' 'no spettacolo davvero commovente,
ma...a me , però, un dubbio m'è venuto
e l'ho da dì quello che c'ho in mente,
a costo de passà pe' un gran cornuto:
ma nun sarà che molta de 'sta gente
(quello che penso è questo, so' sincero!)
ha fatto tutto questo, gnente gnente,
pe' poté, alla fine, di' :"Io c'ero"?
Me dispiace a 'sto pensiero daje voce,
ma molti, lì davanti ar poro vecchio,
nun se so' fatti manco er segno della croce:
un "click" cor cellulare, e bonanotte ar secchio.
(aprile 2005)


Vietato fumare

Hanno deciso la guera ar fumatore
e fanno er terorismo sui pacchetti:
c'hanno scritto "er fumo fà venì er tumore",
così li salutisti so' contenti.
" Er fumo - dicono- t'ammazza piano piano":
e che me frega? Io mica c'ho fretta!
Piuttosto che morì co' 'n'aeroplano
preferisco de fallo pe' 'na sigaretta.
E poi, te fanno puro strigne er core
si pe' caso riesci a fatte 'na tirata:
"E' corpa tua si uno more de tumore,
l'hai avvelenato tu, co' 'na fumata!".
Che nun me posso più fà 'na passeggiata
mica ce penzano, però, 'sti rompipalle:
la machine, li purmann...è 'na cazzata
che er gas de scarico me fà molto più male!
E infatti, si me vojo suicidà
mica m'attacco allo scappamento:
m'accenno sei sette sigarette
e te saluto, monno, moro contento.
(gennaio 2005)

Il mercenario

'Na vorta chi nun vedeva gnente
era chiamato cieco, sarvognuno;
oggi invece s'ha da dire non vedente
ché cieco nun se pò più dì a nessuno.
E allora, si quarcuno nun è bono a letto
pe' nun offende lui, e manco l'amante,
nun je se po' di' impotente, mica è corretto:
je potemo, che sò, di' "non trombante!"
Vabbè, contenti voi, a me me cambia poco,
tanto quello che vor di' rimane uguale:
quello che io ho sempre detto porco
tu lo poi chiamà pure maiale.
Però, si vai a 'na guera che nun è la tua,
e ce vai solo pe' sbarcà er lunario,
pe' definitte c'è solo 'na parola,
e la parola è questa: mercenario.
(aprile 2004)


Marco Pantani

Quanno che 'n'omo more, è risaputo:
alla gente bbona je se strigne er core.
Si poi sei stato un ladro o un gran cornuto
drento 'na bara tutto ciò nun conta.
Co' te, però, è diverso, è cosa certa,
sei stato proprio un grande paraculo:
mentre che pedalavi in bicicletta
c'hai preso tutti quanti per il culo.
Te facevi passà pe' un gran campione,
er mejo de li mejo sui pedali;
e invece te pijavi er bibbitone
e su in salita te spuntaveno le ali.
Ora sei morto, e certo me dispiace,
ma solo come omo, e innanzi a te io m'arzo;
come perzona, mò, riposa in pace:
come sportivo nun valevi un cazzo.
(febbraio 2004)


Nassirya

Tutta l'italia piagne li sordati
ammazzati in quel di Nassirya:
"Poveri fiji, l'hanno trucidati,
quarcuno era padre de famija".
Ma ce lo sanno, tutti 'sti piagnoni,
che cosa vole dì esse 'n sordato?
Vor dì portà er fucile e li cannoni,
vor dì che poi ammazzà o esse ammazzato.
Si vanno in pace, a portà 'n'aiuto,
nun portano le bombe e i cararmati:
nun ce so' annati a portà un saluto,
ma so' partiti perchè erano sordati.
E gnisuno l'ha obbrigati a annà in missione,
ma tutti so' partiti volontari.
Ce lo sa, questo, er popolo cojone,
che mo' li piagne tutti sull'altari?
Chi fa er sordato, questo ce lo sà:
pò rimanè ucciso, o pò ammazzà;
si torna a casa ce so' gloria e sòrdi,
si ce rimane solo li ricordi.

venerdì 23 gennaio 2009

Pasquino... l'ultima statua parlante...


Figura antagonista, pasquino fu l’ultima statua parlante di Roma… o meglio.. n’deRoma!!
Posizionate nel centro storico alla statua di notte, venivano attaccati sonetti satirici e politici che se la prendevano per lo più con le autorità statali, quindi contro il papa, il potere temporale e i cardinali.
La fama di Pasquino divenne tale che alcuni papi, preoccupati, tentarono più volte di prendere l’autore o gli autori della “pasquinate”, fecero presiedere la statua giorno e notte ma in compenso le pasquinate si estesero a tutte le statue romane. Fu pure proposto di gettare la statua nel Tevere ma la coscienza di alcuni cardinali riuscì a prevalere sull’autorità di papa Adriano VI.
Pasquino sopravvisse nel tempo, le ultime pasquinate risalgono al fascismo dove dopo un lungo periodo di pausa Pasquino ritorna:

"Povera Roma mia de travertino!
T'hanno vestita tutta de cartone
pè fatte rimirà da 'n'imbianchino
tuo prossimo padrone."
In tempi più recenti, in occasione della visita di Mikail Gorbaciov a Roma, Pasquino diede voce al disturbo che certe misure di sicurezza arrecavano ai romani:
"La Perestrojka nun se magna
da du' giorni ce manni a pedagna
sarebbe er caso de smammà
ce cominceno a girà."

L'origine del nome è avvolta nella leggenda, di cui esistono diverse versioni. Secondo alcuni Pasquino sarebbe stato un personaggio del rione noto per i suoi versi satirici: forse un barbiere, un fabbro, un sarto o un calzolaio. Secondo Teofilo Folengo mastro Pasquino sarebbe stato un ristoratore che conduceva il suo esercizio nella piazzetta. Un'ipotesi recente sostiene invece che fosse il nome di un docente di grammatica latina di una vicina scuola, i cui studenti vi avrebbero notato delle rassomiglianze fisiche: sarebbero stati questi a lasciare per goliardia i primi fogli satirici. Vi è anche un'altra versione che vorrebbe collegare il nome della statua a quello del protagonista di una novella del Boccaccio (Decamerone, IV, 7) morto per avvelenamento da salvia, erba nota invece per le sue qualità sanifiche: il nome quindi sarebbe stato ad indicare chi viene danneggiato dalle cose che si spacciano per buone (come poteva essere, in quel contesto, il potere papale).

giovedì 22 gennaio 2009

LIBERO SAPERE IL LIBERO STATO





IN SEI ANNI dall'inizio della seconda intifada (settembre 2000)
il bilancio delle vittime é:
6 israeliani morti a causa di razzi sparati da palestinesi
4500 palestinesi uccisi dall'esercito israeliano
(fonte: Le Monde Diplomatique )


APRILE-MAGGIO-GIUGNO 2006
L'esercito israeliano bombarda incessantemente la striscia di Gaza causando la morte di decine di palestinesi, in maggioranza bambini, con il pretesto di colpire miliziani della resistenza palestinese.
Gli USA hanno imposto il veto ad una risoluzione del Consiglio di sicurezza per il cessate il fuoco e la comunità internazionale é rimasta muta ad assistere al massacro della popolazione civile inerme
Da metà maggio a giugno 90 civili uccisi

LUGLIO 2006 - OPERAZIONE SUMMER RAIN
Dal 28 giugno 2006 inizia l'operazione "summer rain", il pretesto è il rapimento di un soldato israeliano.
6 luglio 2006 inizia l'invasione della zona settentrionale
La giornata più violenta dal ritiro dell'esercito israeliano nel settembre 2005
Il bilancio dei morti e feriti palestinesi (25 morti e 70 feriti) é il più alto in un singolo giorno da quando l'esercito israeliano uccise 28 persone nel settembre 2004 sempre nella zone settentrionale della striscia di Gaza.
Iniziano le denunce dei medici palestinesi sull’uso di armi proibite da parte dell’esercito israeliano.

AGOSTO 2006
(fonte: ministero sanità palestinese)
Dall’inizio dell’operazione “summer rain” nella striscia di Gaza, il 28 giugno 2006, fino alla metà del mese di agosto:
193 morti di cui 58 bambini e 25 donne
790 feriti di cui 283 bambini e 89 donne
(fonte OCHA Office for the Coordination of Humanitarian Affairs)
Migliaia di palestinesi costretti ad abbandonare le proprie case a causa delle continue incursioni ed attacchi aerei, che sono arrivati a 267 dal 28 giugno. 120 strutture (negozi, case, fattorie) sono state distrutte e 160 danneggiate dall’esercito israeliano.
Gravi danni si riscontrano soprattutto alle reti elettriche e stradali.
OPERAZIONI MILITARI
Continua la pratica delle truppe di occupazione di spaventare gli abitanti per indurli a lasciare le proprie case ed i propri beni, I residenti sono raggiunti da telefonate che li avvertono di lasciare in pochi minuti la propria abitazione perché sta per essere bombardata. In alcuni casi l’evento non si verifica nemmeno.

OTTOBRE 2006
Sono state distrutte le sedi del ministero degli interni, esteri, economia, del primo ministro oltre a numerose scuole
Centinaia di ettari di terreno e decine di case distrutte
Molte famiglie evacuate a Rafah, Beit Hanoun e Beit Lahia. Molte altre terrorizzate dalle telefonate minacciose dei soldati che annunciavano il bombardamento

NOVEMBRE 2006 - operazione “Autumn clouds”
Dal 25 giugno 2006 al 26 novembre 2006 (data ufficiale della tregua)
400 persone morte, di cui la metà civili e 90 bambini
1500 sono i feriti di cui 300 i bambini
Nello stesso periodo sono stati uccisi 3 soldati israeliani, feriti 18 e, causa del lancio di razzi Qassam sulla colonia israeliana di Sderot, sono stati uccisi 2 civili e feriti 30.
Il 26 novembre viene proclamata una tregua che non è stata mai rispettata. Proseguono incursioni, bombardamenti, arresti, esecuzioni extragiudiziali con il pretesto di rappresaglia contro il lancio di missili Qassam sulle colonie israeliane.

APRLE 2007
Il 2 aprile il ministro della difesa Peretz dà il via libera alla ripresa delle ostilità nella striscia di Gaza e minaccia una nuova invasione.
Dal 25 giugno 2006, giorno del rapimento del soldato Shalit a fine aprile 2007
563 palestinesi uccisi, la maggior parte nella striscia di Gaza

MAGGIO 2007
Il 16 maggio 2007 riprendono gli attacchi dell’esercito israeliano in forma estesa e massiccia nella striscia di Gaza con il pretesto della rappresaglia contro il lancio di missili Qassam sulla colonia israeliana di Sderot.
Non è prevista un invasione per il momento anche se i blindati e le truppe israeliane si sono attestate al confine settentrionale.

lunedì 5 gennaio 2009

IN NOME DEL POPOLO SOVRANO... ovvero... il servo che non si ribella è peggio del padrone che lo comanda




... disse bene Pasquino quando er papa se la battè...

"non ci illudiamo romani e parliamoci franco
dire prete patriottico e dire corvo bianco
contraddizione in termini
a cui non ha eguale
dire papa un tempo
ed essere liberale"


se il papa è andato via
buon viaggio e così sia (rip)

non morirem d'affanno
perchè fuggì un tiranno (rip)

perchè si ruppe il cavo
che ci legava i pied (rip)

viva l'Italia e il popolo
e il papa che va via (rip)

perchè sovrano è il popolo
mai più ritorni un re (rip)

dedicato a chi ha creduto in un mondo diverso, senza tiranni ne papi ne re
dedicato a chi è morto per difendere la repubblica romana
dedicato a chi scappava di casa per inseguire un ideale di libertà ed ugualianza
dedicato a chi credeva nell'italia socialista e repubblicana
dedicato all'eroe dei due mondi
dedicato a chi cospirava
dedicato a chi si batteva sulle barricate
dedicato a chi si batte tutt'oggi per la giustizia,l'uguaglianza e la libertà
dedicato a chi non smette mai di sognare
dedicato a chi non smette mai di lottare

Se la vittima diventa il boia...



Il fumo m’impedisce di vedere cosa succede, procedo a rilento tra la folla impazzita. L’odore di bruciato e arrosto mi guida tra vicoli irriconoscibili di Gaza. Nelle orecchie solo uno stridulo continuo che sovrasta gli altri suoni. Ogni tanto intravedo sagome di gente maldestra che corre disperatamente ma non si capisce dove.
Non capisco neanche io dove sto andando ne tanto meno cosa è successo.
L’ultimo ricordo è di mio fratello che gioca a palla con i suoi amici. Rachid è bravo a calcio, vorrebbe andare a giocare in Italia con Ronaldhino e Kaka ma la mamma dice che deve studiare perché il suo futuro, dice lei, deve essere lontano da qui; sogna per lui un futuro da medico magari in qualche ospedale privato americano o inglese, un posto sicuro, dice lei.
Io non ho mai capito cosa intenda per sicuro, forse un posto dove non c’è pericolo di bisticciare con qualcuno, di litigare, un posto bello in cui si possa stare in pace.
Rachid, ricordo, aveva dei pantaloncini blu chiaro che papà ha comprato per se stesso la scorsa settimana, dice per la primavera, quando farà caldo, ma papà non sa che li usa Rachid per giocare a pallone.
Avanzo lentamente tra la nebbia che puzza di fumo, con una mano cerco di coprirmi il volto con l’altra accarezzo un edificio; cerco di sorreggermi contro un muro.
Mi sono svegliata un po’ confusa, con un grosso mal di testa, mi sono svegliata distesa sulla strada, la stessa strada dove stavo giocando con le mie amiche e adesso non so più ne dove sono ne cosa sta succedendo.
Il cielo lentamente ritorna celeste, d’innanzi a me si apre uno spiraglio tra le tenebre, intravedo movimenti, sento rumori sempre più chiari e definiti ma ancora sconosciuti.
Un tuono!
Il cuore smette di battere per qualche secondo, poi ricomincia più forte… sempre più forte… e sale.. sembra quasi che mi stia battendo in gola.
Ho paura!
Vorrei urlare ma la mia bocca non emette suoni, come se fossi muta.
Guardo il cielo, è sempre nero. Poi non so come ma mi ritrovo nuovamente a terra. Adesso ho capito tutto!
Sotto le mie mani scorre del liquido caldo e rossastro… lo conosco, è sangue! Credo che sia mio ma non saprei dire con esattezza dove sia ferita in quanto sono completamente paralizzata. Il mio corpo non risponde più, sono immobile e non provo dolore.
Con la testa distesa sull’asfalto guardo di fronte a me… scorgo un ragazzo che mi viene in contro, sta piangendo, urla, credo sia qualcuno che mi conosce, mi chiama, credo, ma non posso rispondere, anche se vorrei. Avanza verso di me, non riesco a guardarlo in faccia ma lo riconosco dai pantaloncini blu. Finalmente ti ho trovato Rachid, portami a casa dalla mamma.