mercoledì 14 aprile 2010

Volevo solo provare a volare


Bolivia, 8 ottobre 1967

Ho appena finito di rileggere Giovenale. Delicatamente riposo il libro sul mio petto e lo premo leggermente con i palmi delle mani, quasi a volerlo inglobare dentro di me. Questo è uno dei momenti che preferisco: la soddisfazione e il senso di tranquillità che si prova dopo aver finito di leggere un libro. Una sottile brezza di Favonio accarezzava il mio viso e culla dolcemente l'amaca attaccata con ragnatele agli alberi. Il cielo incominciava a tingersi di indaco e arancione, di viola e di smeraldo. La notte tarda ad arrivare e lascia posto al momento più bello della giornata. Il crepuscolo fonde i colori come in un mercato del Karaki, e la mente ed i pensieri si mescolano. I muscoli si rilassano, il sangue rallenta brevemente la sua corsa e il cuore i battiti, il cervello riposa per pochi secondi. Solo gli occhi e le orecchie rimangono guardinghi, pronti a catturare le più impercettibili sfumature surreali e a farne poesia. A valle la gente è ancora indaffarata a lavorare. C'è il vecchio Bosè che conta le pecore di ritorno dai pascoli, Lara e Agapito che finiscono di scaricare le botti, Demetrio che continua ad abbaiare alle galline. Le voci si mescolano insieme e risalgano la vallata fino alle mie orecchie. Non sono voci dispettose. Accompagnano l'imbrunire nella sua dolce danza finale. Ecco il crescendo che si manifesta come le più belle melodie di un tempo. I timpani battono più forte, velocissimi e caldi, e si fondono in un unico tuono. Ecco i fiati, i clarinetti e i pifferi, e poi gli ottoni, le trombe, i tromboni e i sassofoni, i violini e i violoncelli... è un crescendo continuo ed emozionante. La natura offre il suo spettacolo migliore, ma non tutti possono sentire, non tutti vogliono ascoltare. Le mie orecchie continuano ad accogliere queste sinfonie immaginarie e la meraviglia del mondo accompagna la poesia del momento. Siamo al gran finale. Rullo di tamburi. La musica diventa un rumore assordante. La notte cala come un manto di lino blu ricoperto di smeraldi.
Finalmente chiudo gli occhi e il cuore ricomincia a battere regolarmente, il sangue a scorrere e il cervello a pensare.
Un altra giornata in questo angolo sperduto di mondo. Ancora guardo il cielo e ancora penso a quello che è stato. Solitario e romantico ripercorro con i ricordi le gesta di un uomo che provò a fare dell'oceano una goccia.
Una scarpa maldestra e un laccio libertario lo accompagnano lungo i campi Elisi della realtà e lo scortano verso una delle sette porte dell'inferno. Un amico goffo scruta l'orizzonte, e con eleganza indica un punto dell'infinito: “là!... è là che dobbiamo andare!”. Un vecchio destriero intona un lamento nella notte di ghiaccio e illumina una strada. Come un Ulisse ma senza un'amata né una meta, né uno scopo. L'unica legge una parola, l'unico confine un pensiero.
Sono particolarmente stanco da un po' di tempo, malinconico più del solito. Ho generato soldati e gli ho armati di speranza e di forza, di rispetto e di coraggio. Ho insegnato a chi mi stava intorno ad essere, senza dimenticare mai di essere Altri tra gli Altri. Ho visto conigli comportarsi da leoni e leoni dimostrarsi conigli. Ho visto piccoli uomini ammazzare, uomini disperati, goffi e nudi. E poi ho visto uomini grandi sorridere dietro grandi scudi. Ma adesso sono stanco, la tempesta dentro me si sta un po' calmando... adesso, che i grilli e le cicale approfittino pure di queste quiete. Il ragno che tesseva la mia amaca è andato a dormire, forse stanco del mio filosofare, e al suo posto una foglia di ebano mi porge alla madre terra da dove ero venuto. Sono tornato a casa mamma!

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